5. La scuola
5.1 Educare e non solo istruire
5.2 Educare tutta la persona
5.3 Scuola in uno Stato laico
5.4 Un confronto che fa riflettere
5.5 Un sistema scolastico integrato
5.6 Vangelo e scuola insieme per l’educazione
5.1 Educare e non solo istruire
La riflessione che ho svolto circa la necessità di un ‘circolo virtuoso’ tra istruzione ed educazione vale soprattutto per la scuola. Che la politica scolastica sia stata una delle priorità nella vita politica cantonale degli ultimi decenni è un dato di fatto innegabile. Dall’edilizia scolastica alle riforme che toccano ogni ordine di scuola, dal primario all’universitario, l’impegno per il settore scolastico è stato intenso ed encomiabile anche se non sempre lineare. Ne è prova il cambiamento di nome subito dal Dipartimento responsabile, passato da DPE (Dipartimento della Pubblica Educazione) a DIC (Dipartimento Istruzione e Cultura) a DECS (Dipartimento Educazione Cultura e Sport). Quell’oscillare tra educazione ed istruzione è sintomatico, tanto che il Franscini aveva introdotto, nella legge del 1840, il connubio “educazione all’istruzione”. Certo educare in una società pluralista diviene più complesso e richiede più che mai la collaborazione delle altre istituzioni presenti nella società, a cominciare dalla famiglia e poi dalle Chiese che non possono non preoccuparsi dell’educazione delle future generazioni. Non possiamo infatti accontentarci di avere generazioni di futuri ticinesi istruiti, ma non più educati, come sempre più di frequente ci è dato di vedere. Anche per queste ragioni la Chiesa cattolica chiede di restare presente nella scuola pubblica, cioè di tutti, per poter contribuire a conseguire questi ideali, che ritiene specifici della sua missione nella società, dove è attiva non come semplice associazione privata, ma come corporazione riconosciuta di diritto pubblico, quindi abilitata a una collaborazione con le altre istanze deputate al bene comune. Un’introduzione generica alle confessioni religiose o una vaga loro storia non sono ritenute sufficienti ai fini dell’educazione, per formare e sviluppare l’identità e la relazionalità personale e sociale, necessarie per un dialogo consapevole e responsabile con le altre religioni. Men che meno possiamo essere contenti di quelle proposte che pretendono di fornire le indispensabili coordinate per una conoscenza completa e soddisfacente dell’universo religioso di una società, illudendo che tale insegnamento potrà avvenire nel contesto di altre discipline. Si tratta di un’autentica illusione.
L’educazione riguarda l’insieme della persona e raggiunge il significato del vivere, coinvolge non solo l’intelletto, ma pure il cuore, soprattutto la volontà, la libertà, il comportamento, che si formano non solo con l’acquisizione di nozioni, ma con l’esercizio di determinate abitudini di vita, con la scelta vissuta di determinati valori. A questi traguardi non si può rinunciare anche se giustamente la scuola riconosce i suoi limiti e la sua insufficienza, ma questo suo impegno deve essere perseguito proprio nel momento in cui il paese diviene sempre più pluralista e in una scuola pluralista. Ci sono infatti valori comuni, di base, che occorre riconoscere come traguardi educativi verso cui far crescere l’insieme della persona umana, perché essi soli danno il senso vero e pieno del convivere comune. La ricerca di questi valori fondamentali, comuni, come la ragionevolezza di base della persona umana, il metodo del dialogo nel rispetto rigoroso della coscienza, che riconosce i rapporti tra laicità, verità, libertà, lo stesso riconoscimento del valore della pluralità come elemento ineliminabile del sistema democratico, dicono che proprio nelle società pluraliste c’è bisogno di educazione e che la sola istruzione non basta. Non basta l’istruzione anche se non cade nel nozionismo e si sforza di essere cultura, cioè produttrice di novità e di progresso. Sentiamo che resta un’opera incompiuta quella dell’istruzione che non si propone anche di essere educazione. Episodi sempre più frequenti di violenza, persino contro i genitori oppure verso i compagni, peggio se sono terzomondiali, denotano mancanza di istruzione o dicono piuttosto mancanza di educazione? “La cultura scolastica non va confusa con l’istruzione corrispondente a un generico nozionismo e all’apprendimento di determinate competenze tecniche, ma deve organizzarsi secondo programmi e metodi conseguenti dal proposito di esercitare gli scolari nelle loro personali risorse… Sempre la scuola deve essere scuola di umanità” (Norberto Galli, Quali valori nella scuola di Stato, Ed. La Scuola, Brescia). Questo è un altro bel modo di dire che la scuola non deve limitarsi all’istruzione ma deve preoccuparsi anche dell’educazione. Proprio in una società complessa, pluralista, fortemente secolarizzata, la scuola difficilmente può sottrarsi al compito di mediare razionalità scientifico-tecnologica e neo-umanesimo centrato sulla persona. Che vuol dire preoccuparsi dell’istruzione, ma non dimenticare i ben più impegnativi e complessi traguardi dell’educazione. “La scuola delle democrazie consolidate ha il compito di privilegiare non un insegnamento dottrinale, da cui dedurre i principi a cui aderire e le norme della condotta individuale, e nemmeno un insegnamento strumentale, rivolto a preparare solo tecnici o specialisti, bensì un insegnamento riflessivo, adeguato a persone libere, proclivi a una concezione nuova di laicità, in cui il dialogo assurga a principio nel riguardo della dignità di tutti” (Norberto Galli, op. cit.).
In questo contesto può essere utile riflettere sulla laicità dello Stato in una società multiculturale. Esistono oggi due modi di intendere lo Stato laico. Il primo modo sostiene che di fronte al crescere delle differenze culturali è sempre più necessario che lo Stato diventi laico nel senso di essere neutrale di fronte alle diverse culture e ai diversi modi di vita. In questa visione la neutralità significa separazione netta tra religione e Stato e comunque indifferenza verso le religioni. Per essere concreti da noi Cristianesimo e Islam devono avere la medesima considerazione da parte dello Stato: nessuna. Laico in questa versione significa che nega o prescinde completamente da ogni visione religiosa. Salvo poi consentire alle identità particolari, incluse quelle religiose, di sopravvivere nel privato e nell’appartenenza di gruppo. E’ una visione che, a giudizio del sociologo Pierpaoalo Donati, porterà ad una società caratterizzata da conflitti multiculturali, da anomia e nichilismo. La seconda ipotesi dice che lo Stato laico è un’esigenza permanente del carattere secolare della realtà umana. Scrive in proposito il sociologo Pierpaoalo Donati: “In ogni società esiste la distinzione fra religioso e secolare, fra sacro e profano, e ogni società deve regolare le relazione fra le due sfere con istituzioni e strumenti appropriati. In termini sociologici, dietro questa ipotesi c’è, al contrario della precedente, una valutazione positiva dello Stato laico, che è quella della configurazione politica che rispetta le distinzioni, senza separazioni nette o confusioni, ma nello stesso tempo collega e dà senso ad ogni identità perché, non escludendo la religione dalla sfera pubblica, ma anzi valorizzando la religione proprio a partire da quella (e non dal privato) , dà senso a ciò che è contingente mediante la relazione all’assoluto, a ciò che non è negoziabile (i diritti della dignità). Lo Stato laico di cui abbiamo bisogno per evitare conflitti permanenti e la disumanizzazione della società, è quello capace di operare distinzioni riflessive fra le diverse identità culturali e di valorizzare ciò che in esse vi è di umano”.
5.4 Un confronto che fa riflettere
Ricordo l’esperienza, raccontatami da una mamma, di un primo giorno di scuola di qualche anno fa, in una prima media del Cantone. La sua bambina, ancora tutta inesperta e spaesata, osa chiedere qualcosa al docente e per tutta risposta si sente apostrofare: “Ma tu che cazzo vuoi?”. La mamma me lo raccontava allibita: “In casa nostra non vogliamo neanche che i ragazzi si dicano stupido. Non hanno mai sentito una parolaccia da me e mio marito. E poi vanno a scuola e il primo giorno sentono il maestro esprimersi così. Lei cosa ne dice?”. Cosa volete che ne dica? La persona che mi raccontava questo episodio era una donna del terzo mondo, che rivelava una particolare educazione e sensibilità. Mi aveva appena chiesto se io ritenessi buona la scuola qui in Ticino, e avevo risposto di sì, che ritenevo fosse meglio per i suoi figli che frequentassero le scuole qui piuttosto che in India. Ma dovetti subito ricredermi a sentire quanto mi raccontò ancora quella donna: come il rispetto per il docente da loro fosse addirittura sacro, ma al tempo stesso i docenti fossero consapevoli del loro ruolo e della stima di cui godevano. Come la scuola non si limitasse ad insegnare, ma si impegnasse ad educare ai valori e ai comportamenti. Mi raccontò dei suoi studi, dei 18 km percorsi giornalmente a piedi da sua sorella per frequentare la scuola superiore, dello stile di rispetto e disciplina che regnava, pur nella povertà delle loro scuole di villaggio. Erano cose di un altro mondo, per noi di un altro tempo, eppure qualcosa di valido mi pareva ci fosse ancora nel suo raccontare concitato. Senza voler rimpiangere i tempi passati, la denuncia spontanea di questa madre mi invitava a riflettere sulle condizioni, non dico delle nostre scuole, ma della nostra cultura e della nostra civiltà. Bambini che frequentano le scuole elementari con dieci franchi a disposizione ogni giorno, che fanno scempio del materiale scolastico senza riguardo, che deridono il compagno perché viene accompagnato a scuola o al bus dai genitori. Sono tutti segni di stravolgimento dei valori, di false sicurezze. Neanche le scuole private danno sempre sufficienti garanzie: la sua bambina che ne frequentava una, si vedeva confrontata con le compagne che vestivano abiti firmati e vivevano di continui pettegolezzi basati sulla condizione sociale o sui soldi, che mettevano a profondo disagio. In particolare veniva ferita dalla scarsa solidarietà, dal fatto di non aver sentito nessuna forma di iniziativa per informare sui bambini affamati della Somalia o disperati della ex-Jugoslavia. La sua conclusione fu che era meglio quando si andava a scuola tutti con la medesima divisa e si domandava seriamente se non dovesse tornare al suo paese di origine per una migliore educazione dei suoi figli. Cara signora, non è un problema di divisa, ma quello che lei ha denunciato resta un problema di stile e di valori, di impegno e di ampia progettualità della nostra scuola. Saper conciliare il massimo di libertà ed autonomia personale con la responsabilità e il miglior profitto, non è facile. Fa bene ogni tanto sentire discorsi come i suoi. Colpisce vedere una mamma indiana dire che preferisce riportare i suoi figli in India per la loro educazione.
5.5 Un sistema scolastico integrato
In una lettera dedicata all’educazione non posso non riservare un paragrafo per ricordare il grande servizio reso dalla Scuola Cattolica al bene sociale del nostro Cantone. Fino all’ottocento furono praticamente le uniche scuole attive. Purtroppo, per una crisi della quale non si vede ancora la fine, le Scuole cattoliche, che negli anni 80 del secolo scorso erano ancora più di una ventina, oggi si sono dimezzate e continuano a conoscere gravi problemi di natura economica per la loro sopravvivenza. La presenza di numerose vocazioni religiose favoriva nel passato questo servizio perché permetteva di mantenere molto basse le tasse e le rette scolastiche, mentre l’aumento di docenti laici, con diverse esigenze di sostentamento, ha inciso pesantemente sul bilancio ed obbligato a chiedere rette spesso inaccessibili a famiglie di mezzi modesti. Non è certo venuto meno il bisogno e l’utilità di scuole cattoliche, che desiderano prima di tutto il servizio all’allievo, al quale intendono offrire una cultura ed un’educazione che facciano crescere la sua personalità, lo aiutino a comprendere il mondo e a collaborare alla sua costruzione, gli permettano di dare un senso alla propria vita. L’impostazione pedagogica ispirata al cristianesimo obbliga il docente ad interessarsi singolarmente di ogni allievo, ad accettare ognuno con le sue caratteristiche personali, a creare un ambiente finalizzato non solo al rendimento scolastico, ma che si preoccupi anche del contesto sociale e ispiri la sua azione ai principi del nostro convivere moderno. Ciò che caratterizza una scuola cattolica è il suo ambiente e lo spirito che si respira dovuto ad un positivo rapporto tra docenti ed allievi, alla partecipazione degli allievi e dei loro genitori alle decisioni che li riguardano, alla loro corresponsabilità nella vita dell’Istituto e nell’organizzazione del tempo libero e all’impegno di capire l’allievo nella sua completezza e particolarità, impegnandolo a vivere la giustizia e la carità. Gli studi scientifici in materia assicurano che l’ambiente della scuola, contrassegnato dall’impegno personale di docenti ed educatori, è più determinante per il successo finale che i mezzi didattici, i metodi o i sistemi di valutazione. Il consenso delle famiglie ai sistemi pedagogici ed educativi della scuola è una condizione importante perché essa abbia successo, mettendosi infatti al servizio del ragazzo la scuola serve anche le famiglie, che si vedono completare e sostenere i loro sforzi educativi in sintonia con le loro convinzioni etiche e religiose. Rispetto alle scuole cantonali una scuola cattolica può adattarsi più facilmente ed in fretta alle necessità urgenti degli utenti. Le sue strutture sono più semplici e più duttili, le vie decisionali più brevi, c’è maggior libertà perché è meno ostacolata da contrasti politici. Purtroppo spesso mancano i mezzi per poter far rendere al meglio il suo sforzo di libertà, ma la sua presenza dovrebbe essere salutata positivamente dalle autorità politiche e vista come un contributo complementare al raggiungimento dei fini della politica culturale e pedagogica. Garantire la possibilità di scelta rappresenta certamente un arricchimento al tessuto sociale ed offre un contributo alle attitudini e agli interessi, ai bisogni particolari degli allievi e delle famiglie, senza dire che un sistema integrato di istruzione scolastica eviterebbe di fare lievitare i costi in misura esponenziale, come sta avvenendo da noi. Lo Stato deve tutelare i diritti educativi, i diritti all’educazione e all’istruzione di tutti i suoi cittadini e renderli effettivamente attuabili. Ogni forma di “monopolio scolastico” suona lesiva dei diritti educativi dei cittadini, impedisce libere scelte, che potrebbero anche coinvolgere profonde motivazioni di coscienza, non realizza il fondamentale diritto alla libertà di scelta dell’istituzione scolastica. Non poter scegliere circa l’istruzione e l’educazione dei figli significa impedire alla persona umana di crescere secondo la libertà della sua coscienza, diritto che è alla base di ogni convivenza civile. Sostenendo un sistema scolastico integrato tra pubblico e privato non si intende in nessun modo scalfire o indebolire la scuola pubblica e neppure si intende esautorare lo Stato delle sue competenze e responsabilità o sgretolare il sistema scolastico, avvallando le pretese di ogni gruppo sociale. Lo Stato mantiene l’obbligo, oltre che il diritto, di stabilire le condizioni secondo le quali dà il riconoscimento legale degli studi compiuti. Di più lo Stato ha il diritto-dovere di impartire indicazioni e condizioni perché una scuola possa meritare la qualifica di servizio pubblico. Non siamo per l’anarchia scolastica, siamo per una nuova socialità scolastica, che metta tutti i cittadini su un piano di uguaglianza nella scelta del tipo di scuola più confacente ai loro ideali, bisogni, interessi. Siamo per un sistema scolastico integrato e complementare tra pubblico e privato per favorire la soluzione dei problemi posti dall’emergenza educativa. Ai religiosi e alle religiose che nei secoli passati hanno offerto la loro dedizione per questo servizio altamente meritorio vada il rinnovato riconoscimento di tutto il paese, come pure ai pochi religiosi che continuano ad offrire questo servizio con i molti laici, che rendono possibile, oggi, l’esercizio concreto di libera scelta nella scuola vada la gratitudine più viva. Così come esprimiamo riconoscimento e gratitudine a tutti coloro che in ogni tipo e ordine di scuola sono impegnati per l’educazione e la crescita sana e responsabile delle nuove generazioni.
5.6 Vangelo e scuola insieme per l’educazione
Da un contesto come il nostro, caratterizzato dalla differenziazione sociale, dalla pluralità delle proposte e dalla molteplicità delle occasioni offerte ai giovani, che possono così permettersi una molteplicità di esperienze, deriva per i nostri giovani un grave rischio di dissociazione, addirittura di strabismo. Il tempo oggi è la risorsa più scarsa, considerate le molte cose che si vorrebbero fare. I giovani finiscono per essere presenti in mille cose, senza identificarsi mai pienamente in nessuna di esse. Ne deriva l’immagine di un giovane eclettico, che ricava qualcosa da ognuna delle esperienze che fa, ma senza un centro di riferimento chiaro, che faccia unità. La pluralità non annulla certo le appartenenze tradizionali (famiglia, chiesa, paese), ma rende i giovani più disincantati, più critici da una parte e più tolleranti dall’altra, esigenti e selettivi e al tempo stesso distaccati da esperienze troppo impegnative. I giovani oggi sono presenti, ma non si identificano con le istituzioni che frequentano. Il primato è certamente del soggetto rispetto all’istituzione, qualsiasi istituzione. Questo provoca una forte carica soggettiva, il primario soddisfacimento dei propri bisogni, la ricerca di condizioni umanamente soddisfacenti, un’attenzione privilegiata al mondo dei sentimenti e dei desideri, la ricerca di soddisfare il proprio bisogno di felicità. Soggetti così non si pongono grandi interrogativi, non pensano in grande, ma cercano di realizzare obiettivi concreti e pratici. E’ la rivincita della concretezza e della libertà personale, del criterio dell’utile sull’ideale. Non tutto in questo quadro è negativo. Se viene meno l’attenzione e l’interesse per il bene comune, il primato dell’io segna una ripresa della coscienza personale, come luogo delle scelte e delle responsabilità. Più che mai “l’uomo è il suo cuore”. In un contesto come quello descritto, non basta una scuola che si preoccupi solo dell’istruzione e delle nozioni, che offra solo dati e competenze. Occorre una scuola che vada al di là del solo piano informativo e non si accontenti di una razionalità solamente strumentale. Noi oggi assistiamo ad un impegno della razionalità, che si preoccupa solo dei mezzi, resta invece neutrale circa i fini, quando addirittura non elimina il problema dei fini. Ma il nostro tempo, i nostri giovani, hanno bisogno di ritrovare motivazioni sul senso del vivere. Ricercano risposte sull’orientamento complessivo della vita e a riguardo delle scelte fondamentali. Cosa ne facciamo di una società perfettamente razionale e perfettamente insensata, cioè priva di senso? L’uomo non si accontenta di avere mezzi, ha bisogno di conoscere i traguardi, i fini da raggiungere. Non basta la ragione solo calcolante e strumentale, occorre anche una ragione “valutante”, che giudichi quali sono i fini, i valori, gli interessi migliori da perseguire. Solo una scuola che ricuperi il suo ruolo educativo potrà essere aperta ai valori autenticamente umani, di cui è garante anche il Vangelo. Il Vangelo infatti è la Parola di Dio che entra in vario rapporto con le parole dell’uomo. Ci sono almeno tre modi di declinare la Parola di Dio nelle parole dell’uomo anche nella scuola.
a) Il dialogo che fa incontrare l’altro. Senza dialogo si fanno tristi esperienze di rifiuti e di incomprensioni. La Chiesa ha bisogno della scuola come la scuola ha bisogno della Chiesa. Le accomuna la passione per la verità e per l’uomo: per la verità dell’uomo. Tra Vangelo e scuola c’è una reciproca appartenenza.
b) Il discernimento critico, che esprime giudizi anche di rifiuto. E’ il problema dell’inculturazione della fede nelle parole umane. Non è possibile una accoglienza indiscriminata, occorre il discernimento, che può assumere anche la forma del conflitto. Non tutte le proposte che la cultura esibisce possono essere accolte. Alcune provocano scontro, almeno richiedono verifica critica e valutazione.
c) La Parola genera parole nuove e significati nuovi. La Parola è una chiave interpretativa della realtà, che produce nuove prospettive di vita. Questa funzione di novità si realizza quando la Parola del Vangelo incontra il cuore, la coscienza, l’interiorità profonda dell’uomo. La coscienza non è solo specchio passivo, che riflette la situazione circostante, ma possiede anche una forza plasmativa, che offre alternative diverse e nuove. La parola è creatrice di libertà. Per tutte queste ragioni Vangelo e scuola non sono due mondi estranei, ma possono lavorare assieme, purché la scuola voglia educare e il Vangelo accetti di incarnarsi per raggiungere il cuore dell’uomo. Mi piace contrastare un luogo comune abbastanza diffuso di chi sostiene che non sia importante avere una testa piena, quanto una testa ben fatta. Questa contrapposizione mi pare artificiosa, perché il contrario di una testa piena è una testa vuota, non una testa ben fatta. Occorre integrare le conoscenze nella persona lottando contro chi vuole una scuola facile e leggera, ma anche non accontentarsi di una scuola di carta, di parole o di diplomi, bensì proporsi una scuola di vita, volta a costruire rapporti di relazioni significative con valori solidi.